Stefano Asili, ricordo a due voci. Il progetto ‘recomposed’

Ho sempre considerato la figura di Asili grafico come voce corale nel nostro mondo, capace di orchestrare polifonicamente l’equilibrio tra pensiero, forma e contenuto del progetto nelle tante espressioni che il suo lavoro ci ha regalato. Ho pensato quindi che il suo ricordo non potesse limitarsi a una singola voce, ma che dovesse essere animato invece da un breve dialogo, l’intenzione di dedicare una parentesi di pensiero, penso a un momento in cui a lui sarebbe piaciuto partecipare. Per questo ho chiesto a Daniela Piscitelli, una preziosa amicizia che abbiamo in comune, già presidente AIAP e impegnatissima educatrice del progetto, di scriverne con me condividendo qualche riga da dedicargli. 

I più recenti scambi e chiacchierate avute con lui risalgono ai miei tentativi di convincerlo a progettare il catalogo che avremmo dedicato al racconto della mostra ‘Osserva le distanze, Esercita il pensiero’ e che grazie al suo intervento avevamo avuto la possibilità di allestire a Nuoro negli spazi dell’editore Ilisso con cui Stefano aveva a lungo collaborato. La malattia era purtroppo già avanzata e Stefano declina l’invito ma senza rinunciare a regalarci ben tre manifesti per quella mostra. Una condizione vissuta senza perdere una generosità intellettuale che per me è stata una sua costante. 


Mi piacerebbe, Daniela partire proprio dalla generosità di Stefano, una qualità che ho sempre apprezzato, ovvero di chi concepisce il proprio lavoro come contributo culturale da non riservare esclusivamente a un committente, ma alla comunità umana.

Stefano è un progettista. Non ‘fa’ il progettista e questa è una differenza sostanziale tra chi progetta per dovere e chi fa del progetto la propria condizione del vivere. Essere progettista per Stefano è avere un certo sguardo sghembo sul mondo, è lo strumento attraverso cui guarda e filtra la vita, quella propria e quella degli altri. Non solo un’attività, quindi, legata ad una possibile committenza, piuttosto un’attitudine naturale, un bisogno che nasce dal profondo di sé stessi per guardare quindi alla vita come condizione dell’essere uomini e donne di questo mondo. È in questo che, credo, risieda  la sua generositá, una attività prolifica, dirompente, un esigenza di costruire narrazioni che potessero restare nel tempo. Progettare dei classici per il futuro. Una esigenza che nasce prima di tutto da una pulsione personale, ma che poi si amplifica attraverso un approccio profondamente etico e onesto sia nel rapporto con sè stesso, che in quello con gli altri, con la sua terra, con il suo lavoro.

Una generosità, quella di Stefano, coltivata in tanti aspetti della sua vita, dagli anni della sua formazione, attraverso percorsi irregolari, alle sue passioni – la vela, la  musica – solo per citarne alcune, fino a comprendere un certo approccio nel lavoro e nella didattica. Io sono un progettista ma anche un educatore, e so cosa significa fare colloquiare questi due aspetti. 

È così. Per capire il lavoro di Stefano serve comprendere tutta la sua formazione, di fisico, prima, di musicista, di lettore, di studioso, di docente. Perché lui ha sempre usato tutte queste competenze come filtro analitico e critico da un lato, e come lente di ingrandimento dall’altro. Credo che ogni cosa della sua vita Stefano l’abbia prima di tutto immaginata. E in questo, lui che sosteneva di non essere riuscito a fare il Fisico, invece credo che lo fosse profondamente. I fisici guardano il mondo reale immaginando le strutture che lo governano, si spingono al di là del conoscibile per poi rendere concreta una utopia. I progetti di Stefano, ma anche i gioielli, i testi, i racconti, i tappeti, sono il frutto di questa condizione che è prima di tutto visionaria. I fisici immaginano mondi che non esistono e poi te li presentano come dei fenomeni del tutto normali, appartenenti alla fattualità del mondo. I progetti di Stefano sono esattamente cosí. Ma come un Fisico ama la ricerca in quanto lascito per l’umanitá, progettare per Stefano è una modalità per incidere nelle cose del mondo. Io credo che Stefano non abbia mai progettato solo per sé stesso o per i propri committenti. Da progettista vero lui cercava nella forma delle cose delle risposte altre. Per questo gli indovinelli grafici, gli algoritmi, la matematica visiva. Non ha mai voluto cedere alla forma fine a sé stessa, non si è mai lasciato lusingare dai simboli e dalle analogie ma attraverso questi ha sempre provato a fornire a sé stesso, e anche agli altri, delle spiegazioni possibili alle domande inespresse delle nostre piccole vite. Attraverso un approccio asciutto e profondamente onesto, quasi fuori moda. 

Una figura generosa e riservata allo stesso tempo. Defilato rispetto ai palcoscenici nazionali eppure sempre attento osservatore, presente quando necessario, conosciuto e apprezzato nonostante la sua riservatezza. Come leggi questa sua doppia anima?

Stefano è sardo. Profondamente sardo. Non è la casualità di una nascita, piuttosto una condizione identitaria dell’essere. La Sardegna è una terra aspra e generosa, ruvida e sorprendente. E tu Marco, sei un progettista che investiga gli aspetti valoriali, identitari, di ‘autentità’ – come li hai definiti – di un territorio, quindi puoi ben comprendere cosa voglio dire. Stefano è stato la lente di ingrandimento della sua Terra, il suo attento osservatore, ne ha tradotto le lusinghe, le asprità, i simboli e le alchimie. La sua austeritá che non è mai severa, piuttosto una condizione di ‘scarsitá’ voluta. Ecco io credo che Stefano ci abbia portato tra i Templari parlando della ‘Lavanda di Elvio’ e ci abbia svelato i significati delle scritture reinterpretando i Tappeti tipografici. Tra Bach e i Giganti di Cabras lui leggeva una linea di continuità ricercandone delle ragioni. Soprattutto inventando  sempre una ‘occasione’ per raccontare storie, vere e verosimili. Nello spazio del racconto Stefano ha sempre cercato un fondo di verità. Era una sobria ossessione. Una necessità che è sempre emersa nelle lunghe chiacchierate, nelle letture, nello sguardo lungo ad osservare il suo mare. La ricerca di qualcosa. Di un ‘conto’ che non è mai tornato ma che Stefano non ha mai smesso di interrogare non per arrivare, alla fine, ad una verità assoluta, quanto, piuttosto, credo, per riuscire a sorprendersi – e a sorprendere – sempre. In fondo Stefano si divertiva molto e voleva fare divertire gli altri, ma in modo intelligente, epigrammatico.

Grazie Daniela, mi fa piacere che questo spazio sia diventato occasione di un pensiero più sedimentato su Stefano. 

Io voglio chiudere con un altro aspetto della sua generosità, ovvero con il progettista che si è molto dedicato alla nostra associazione. Stefano ha disegnato tre manifesti per la mostra derivata dal contest lanciato durante il primo lockdown ‘Osserva le distanze, Esercita il pensiero’. Dove i più si sono dedicati con una singola opera, lui ha ribadito la sua necessità di praticare punti di vista multipli sulle cose, pratica e metodo che consentono di acquisire verticalità e profondità nel trattare un tema come quello a cui ci eravamo applicati. E il suo lavoro è stato ancora una volta di natura letteraria, capace di trasmettere il pensiero. Profondità che in quel caso ha raggiunto il suo apice con quelle mani di Adamo e Dio, riprese dall’affresco michelangiolesco, ritratte lontane, sole nello spazio del manifesto, un gesto progettuale di una forza e una semplicità disarmanti ma che rivela la lucidità del pensiero di Stefano nell’uso del mezzo visuale come strumento per portare con sorpresa e meraviglia messaggi complessi. 

Per me il filo con la sua ‘sardità’ si era aperto nei giorni di Portixeddu, ospiti di Beppe Chia con tutto il direttivo di allora, Mario Piazza in testa, quando ci riunimmo per lavorare alla prima edizione di Aiap Community. Era il 2004 e nella selezione dei progetti incontrai per la prima volta il suo nome. Quella sua capacità di sorprendersi, come scrivi, era già evidente in quei primi progetti, inviati alla partecipazione con l’intento di far arrivare alla ‘Community’ la sua voce di progettista-ricercatore, non ossessionati dalle ortodossie della grafica colta che non si sporca con il commercio ma capaci invece di dialogare con tutti. Poi ci sono stati i Nullaosta, i DesignX, le tante occasioni in cui il suo esserci, anche solo attraverso i suoi lavori, ha reso chiaro, incessantemente quanto per lui il valore dell’essere comunità culturale intorno al progetto, fosse essenziale. È stato Stefano, a marzo dello scorso anno, a metterci in contatto con Vanna Fois di Ilisso Edizioni perché il nostro contest non rimanesse sugli schermi ma potesse diventare una mostra fisica. Ed è quello che è accaduto a Nuoro con oltre 100 manifesti esposti in quella antica casa sarda. Ci eravamo ripromessi un bicchiere di vino insieme in quell’occasione, poi la vita è andata, come capita spesso, per la sua strada e quel grazie che avrei voluto dirgli di persona lo tramutiamo in questo breve omaggio alla capacità di indicare e rivelare che era già nel suo nome (Ah! Sì, Lì…).

Ah! Si. Lì. Chissà se lui ci ha mai pensato.

Lì, in quel 2009 a Napoli, durante la prima edizione di ‘Design per’, dove ci ha parlato di Carbonia e di quell’utopia di fare rinascere dal carbone un luogo di cultura. Un progetto complesso e affascinante, al quale hanno preso parte tanti attori diversi ma orchestrati dalla lungimiranza e dal coraggio di Stefano. Quello stesso coraggio che ci aveva portato, due anni dopo, nel 2011, a immaginare di organizzare una edizione ‘sarda’ di Design per. Un progetto che spaventava tutti tranne noi e che si è rivelato, poi, una occasione fantastica di connessione tra i progettisti locali, di dialogo con il ‘continente’, di creazione di reti internazionali. Sonnoli, Paolo Rosa, Oded Ezer, Sascha Lobe, solo per citare alcuni tra gli ospiti Aiap di quella edizione. E con Stefano, sua moglie Debora e tanti altri progettisti sardi (non cito nessuno perché sono tanti) a fare da ospiti ineguagliabili. Un’edizione per nulla ingessata, piuttosto ‘divertita’ che chiudeva le lunghe e impegnative giornate nell’unico modo possibile: in piazza a bere, mangiare e chiacchierare fino a notte inoltrata. 

A ripensare a quelle serate, dopo tutto quello che abbiamo attraversato in questi ultimi anni, penso: eravamo felici. Ma non lo dico con malinconia, piuttosto con la consapevolezza di chi ha vissuto una stagione della grafica straordinaria. In quelle serate sarde, e negli anni a seguire nella costruzione di un rapporto speciale, ho capito cosa significasse per Stefano essere progettista. Significava essere libero. La Sardegna è luogo di lingue e di popoli, intrecciati in un mediterraneo che è stato lo spazio della fertilizzazione di ‘genti’ diverse, raccontati attraverso una bandiera che, come lo stesso Stefano ci ricorda: “è uno stemma che nasce senza radici, di seconda mano, riciclato dalla Sardegna della Spagna. Raccontava una storia di altri. Ma che oggi racconta la nostra storia. È un pezzo della nostra Africa, del nostro essere meticci”. Un segno plurale, come amava definirlo. Ma asciutto, dove l’ornamento è solo delitto. Ecco forse questo possiamo scriverlo, in questo testo in punta di piedi, credo che lui lo condividerebbe: il tema dell’ornamento trova in Stefano lo spazio per diventare filo conduttore di una articolata critica che riconduce i temi del progetto ad una sua, forse primigenia, dimensione a-moderna, un pensiero meridiano che caratterizza tutta la sua produzione e che ha sempre privilegiato alla razionalità occidentale la ragione mediterranea. In questa visione meridiana, nei suoi tempi lenti e nella sua dimensione umanistica, i valori dell’imperfezione, della meditazione, della cura per le cose, le persone e l’ambiente, dell’unicità rispetto all’omologazione, diventano valori primi da tutelare e preservare. Questo Stefano lo dice bene e in tanti scritti, ma lo sintetizza in uno dei suoi manifesti più evocativi ‘Free’: i quattro mori ci ricordano che non può esserci libertà senza inclusione; che non può esserci inclusione senza tolleranza; che la tolleranza va rifondata come valore da difendere se accompagnata da una visione laica. Che essere laici significa – anche – assumersi la responsabilità di una scelta. E che questa può essere vera solo se è Libera. Così come Stefano è. Ovunque sia. Ah! Sì. Lì.

Marco Tortoioli Ricci con Daniela Piscitelli


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