Identità visive
Costruire l'identità a partire dai segni
Identità visive è, in qualche modo, un libro che non deve niente a nessuno. Un libro di piacere: quello del suo autore che ritorna alle radici della sua formazione, a quella competenza estetico-antropologica che gli deve essere parsa, negli anni, ben più di un referente e di uno stimolo continuo di arricchimento: un’etica irrinunciabile, una passione inesausta e, insieme, un sapere bisognoso del «malocchio semiotico» almeno quanto quest’ultimo necessita di contributi altri tra cui, in primis, quelli estetici ed antropologici.
Ma un libro di piacere anche per il suo lettore, che ne farà un uso strettamente intellettuale, di sofisticata riflessione teorica, ma che potrà anche praticarne un investimento del tutto empirico ed operativo, inteso a vagliare problematiche di concezione, di coerenza o di percezione di identità visive della più svariata natura. E sappiamo bene che il lettore ideale del nostro autore è di fatto invitato a un doppio uso, indicato a ragione come il più proficuo, e forse oltre, come il solo sensato.
Così è dell’applicazione della semiotica qui suggerita ed esercitata: non disciplina tuttologica e presuntuosa capace di dire di tutto un po’, ma anzi, attrezzo da bricoleur in senso proprio, indispensabile per governare gli insiemi complessi di segni e le loro ragioni e incapace di sussistere abbandonata a se stessa: potente perché contaminata, unica perché trasversale, necessaria perché bisognosa della complementarietà di altre discipline e tra tutte dell’estetica e dell’antropologia cui Floch fa così sovente ricorso.