Progetto grafico 04/05
marzo 2005
Prodotto esaurito
È dedicata alla segnaletica l’ampia sezione CYAN di questo numero ed è suddivisa in tre parti: la prima [a pagina. 100] raccoglie una serie di documenti e interventi coordinati da Giovanni Anceschi, dedicati a nuove proposte per la segnaletica a Venezia scaturite dai workshop di Viverevenezia3, e illustrate poi in una mostra e in un libro; nella seconda, tratto da “Typography papers”, la prestigiosa rivista diretta da Paul Stiff, il saggio di Ole Lund [a pagina. 128] affronta il dibattito pubblico per i segnali stradali delle autostrade inglesi (e ci auguriamo che questa sia solo la prima collaborazione con “Typography Papers” e con altre riviste straniere); nella terza infine Alessandro Colizzi [a pagina. 150] ci informa sullo stato della progettazione grafica nel campo della segnaletica per gli aeroporti. Venezia, autostrade, aeroporti: luoghi dove è molto difficile incontrare segnali come quello nella pagina accanto che infatti ci serve per introdurre solo genericamente il tema della segnaletica (ma ci piace perché riconduce tutto all’uomo) e perché allude al senso di molti pezzi di questo numero di Pg: in alcuni esplicito, in altri meno. Il segnale dice: andare avanti, non stare fermi. Un buon modo per andare avanti è discutere, e una delle cose che molti pezzi di questo numero documentano o propongono è la discussione, non la generica discussione su temi generali ma quella su cose specifiche e di base nel progetto grafico. Scorrendo qui e là la rivista scopriamo infatti che agli inizi degli anni ’60 in Inghilterra il dibattito relativo all’opportunità o meno dell’uso di caratteri con le grazie per la segnaletica delle autostrade approdava sui quotidiani e in televisione [ancora Ole Lund a pagina. 128] (ve li immaginate Bruno Vespa e la Mussolini che a Porta a porta parlano ad esempio di Enigma, la font analizzata in questo numero da Luciano Perondi [a pagina. 188]); nel 1933 sul quotidiano milanese “L’Ambrosiano” si parlava dell’importanza della tipografia nella formazione del gusto [G. Peviani a pagina. 6]; negli anni ’30 il confronto tra la ‘Nuova tipografia’ e quella tradizionale era acceso e sfociava in una rassegna alla Triennale di Milano [Carlo Vinti a pagina. 50]; alla fine degli anni ’40 c’era chi teorizzava sull’utilità di ‘dare un senso’ all’allineamento e alle tabulazioni considerandole parte integrante del significato del testo composto dal tipografo [Giovanni Lussu a pagina. 22]; all’inizio degli anni ’70 c’era chi ribadiva che l’interlocutore del grafico non è il cliente o il brand ma sono le persone, e la scomparsa del grande grafico che diceva queste cose veniva ricordata da un grande scrittore su un quotidiano [Anna Steiner a pagina. 20]. Insomma, ci sembra che negli scritti di questo numero 4|5 ci siano molti esempi di vigorose e appassionate discussioni che coinvolgevano parecchie persone. Tutte cose che hanno mandato ‘avanti’ il progetto grafico. Oggi sembra che la passione sia assente o confinata chissà dove. C’è da chiedersi cosa sia successo e quando. Sembra che ora più o meno vada tutto bene e che ognuno stia nel suo: anche quando qualcuno – come Aiap, come Socialdesignzine – propone temi etici, sociali ponendo questioni che naturalmente dovrebbero provocare accanite discussioni (e non sto qui a farne il lungo elenco) sembra che la cosa non ‘sfondi’ e che, fatte le debite eccezioni, ognuno preferisca occuparsi della propria nicchia. Ma questo, naturalmente, è solo il mio parere, ed è comunque chiaro che la nascita di questa rivista è un evidente segno della volontà di aprire una discussione. In alcuni casi lo abbiamo anche chiaramente sottolineato: ad esempio raccogliendo e rilanciando il tema proposto da Ettore Vitale sull’insegnamento della grafica nelle università che in questo numero registra l’autorevole intervento di Tonino Paris [a pagina. 82], ed è sulla formazione anche l’intervista di Giovanna Vitale a Giancarlo Iliprandi, protagonista della grafica italiana [a pagina. 85]; inoltre in questo numero Mara Campana lancia un nuovo tema [a pagina. 18]: la conservazione della memoria del progetto grafico italiano attraverso la conservazione degli archivi dei grafici che questa disciplina o mestiere hanno creato. Ma nelle pagine che seguono decine sono i temi che penso dovrebbero suscitare interventi, prese di posizione dei nostri colleghi. Ad esempio nella sezione dedicata a Viverevenezia3 Paul Elliman [a pagina. 98] ci parla di segnaletica sonora e non visiva: che ce ne pare? O vogliamo parlare di campagne elettorali, delle nostre campagne elettorali, partendo da quella per le presidenziali americane ampiamente documentata nella sezione curata da Lodovico Gualzetti [a pagina. 64]? Oppure potremmo chiederci che fine ha fatto la ‘grafica di pubblica utilità’; se ne parla nella sezione curata da Mario Piazza che trae origine dal convegno sul tema organizzato da Aiap [a pagina. 178]. O ancora: vogliamo parlare di concorsi? Per uno ‘buono’, quello organizzato dalla Regione Valle d’Aosta, ce ne sono decine ridicoli [a pagina. 214]. Oppure potremmo cominciare a parlare dell’autoreferenzialità dei grafici: un grande tema del quale speriamo poterci presto occupare, e su cui Pino Grimaldi dice esplicitamente [a pagina. 186] che la conoscenza e l’applicazione della legge 150/2000 sull’informazione e la comunicazione delle pubbliche amministrazioni “implica il superamento per i designers di una logica un po’ autoreferenziale: si tratta di operare un riposizionamento della professione del designer”; mentre ancora Mario Piazza [a pagina. 180], rilevando quanto le strutture pubbliche abbiano poco compreso “non la grafica di pubblica utilità, ma l’utilità della grafica” afferma: “Ma forse anche i grafici non hanno saputo colloquiare. Non hanno saputo farsi comprendere, propensi più al riconoscimento autoreferenziale delle proprie capacità”. Insomma di tutto ciò “vogliamo parlarne, o vogliamo tacere” per usare le parole dell’esortazione di Sergio Polano [a pagina. 16], che ha curato la sezione di apertura di questo numero. Non ci piace pensare di dover assistere alla fine della grafica e magari farci fotografare tutti con un cartello al collo con scritto “la colpa è mia, scusate” come hanno fatto migliaia di americani [alle pagine 80 e 81] dopo le elezioni di Bush. Alberto Lecaldano