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Una brand identity per Salerno

Numerosi soci ci richiedono una presa di posizione sulla polemica sorta intorno city branding commissionato a Massimo Vignelli per la città di Salerno.

È una questione complessa, come complesso deve essere il livello di riflessione da attivare quando si parla di identità, di sistemi di comunicazione, di progetto. Ancor di più quando si parla di progetto per un sistema che di per sé stesso è complesso quale è quello di una città.

Ma leggiamo, nei tanti commenti pubblicati, arrivati in sede, scritti, commentati e diffusi, il rischio di posizionare il piano della questione su livelli che invece di rafforzare possano svilire ancora di più la nostra disciplina e, quindi, rischiano di essere lesivi per la nostra professione in generale.

C’è un livello “scandalistico” in questa vicenda, quello di chi accusa questo marchio di essere “brutto e pagato troppo” frutto di semplificazioni a più livelli, che non fanno altro che rafforzare la concezione di un mestiere del grafico come autore di un “disegno” piuttosto che di un progetto. Che affronta la questione in termini demagogici contrapponendo il lavoro affidato alle "archistar" a quello dei “giovani designer”, non prendendo in considerazione un piano, quello della competenza specifica in questo settore del progetto, che non è frutto solo di buon design ma anche di competenze altre e che necessariamente devono poter essere raccordate con atteggiamento registico e concertazione di competenze articolate per la gestione di un progetto che è summa di strategie e design, marketing ed economie, visioni locali e capacità icastiche.

Come associazione riteniamo che non si possa portare il piano della discussione su aspetti che toccano la critica estetica, né la valutazione di merito rispetto al designer selezionato né tantomeno discutere di stile. Aiap è una associazione di professionisti che non può e non deve entrare nel merito delle oscillazioni del gusto, o del “merito” economico di un progetto. Altrimenti dovrebbe farlo con i progetti di tutti i designer e tutti i progetti: sono belli, sono brutti, sono sovra-dimensionati, sono sotto-dimensionati, sono sopravvalutati economicamente oppure non lo sono.

Però Aiap deve e può continuare a portare il piano della discussione su valori teorici, culturali, metodologici, di ricerca e di sperimentazione. Di metodo, di professione, di deontologia, di trasparenza. Aiap, come fa da tanti anni, può avviare dibattiti e confronti, approfondimenti e riflessioni. Sicuramente entrare nel merito delle prassi e delle procedure: pensiamo per esempio ai concorsi che da tempo oramai monitorizza tentando di educare all'applicazione delle norme internazionali Icograda.

Ed in merito alla comunicazione delle città, molte cose sono state fatte grazie a Gianni Sinni, Andrea Rauch e tanti altri soci come Mario Piazza o Emanuela Bonini Lessing e tanti altri ancora: un lavoro meticoloso di formazione ed educazione e quindi, nello specifico, una riflessione continua su come si comunica una città, come si calcola il suo valore sia in termini economici che culturali o politici, quali le strategie e quali le proiezioni per il proprio sviluppo. 

Quello che questa vicenda - come tante altre simili, rappresenta - non è tanto il supposto scandalo di un lavoro pagato troppo (troppo?) ad un professionista che ha usato un gradiente non accettato dalla cultura locale. Quello che rappresenta questa vicenda è l’ennesima dimostrazione della debolezza della nostra disciplina, della mancanza di credibilità e di autorevolezza della nostra professione rispetto alla committenza pubblica. Una committenza capace di scegliere i suoi interlocutori solo con criteri da tabloid (ed ecco marchi firmati da architetti, fotografi e, perché no, stilisti e politici) oppure con la più trita demagogia "dell’opportunità per giovani”, promuovendo a tutti gli effetti la cultura del lavoro sottocosto e/o dell’improvvisazione attraverso concorsi che, nel loro essere costruiti in modo improvvisato producono risultati ad esso proporzionali. Senza considerare, poi, che esiste una intera fascia di progettisti, intermedia tra le archistar e le fasce definite "giovani", sistematicamente ignorata, che di fatto costruisce giorno per giorno l'identità dell'intero sistema-paese Italia attraverso un lavoro meticoloso e attento, attraverso opportunità professionali autopromosse negli interstizi di una cultura politica spesso disattenta e lontana, una cultura imprenditoriale spesso impreparata e improvvisata. Almeno sui temi del progetto.

Siamo convinti, quindi, che occorra spostare il livello della discussione, riportare sul giusto piano del valore parole quali progetto, identità, sistema, bene culturale: non è imbandendo processi sommari agli attori di queste vicende che si costruisce una professionalità autorevole e riconosciuta. Per essere credibili occorre rafforzare la disciplina, ribadire l'utilità del progetto, riammagliare le culture del design quali strumento di crescita della professione, costruire percorsi di ricerca, rafforzare l'idea che il progetto di comunicazione può svolgere un ruolo strategico nella costruzione di paesaggi produttivi, certificare l'indispensabilità del progetto di comunicazione per la diffusione e divulgazione della cultura, il suo ruolo strategico nella formazione, la sua indispensabilità per una comunicazione pubblica trasparente e diretta e l'elenco potrebbe continuare copioso. 

Questa ondata di sdegno invece, seppur comprensibile nelle sue motivazioni, non fa altro che allontanarci dalla possibilità di continuare un dibattito scientifico sui percorsi che devono condurre ad una riflessione sul progetto nelle sue linee strategiche e visibili.

Merita quindi riflettere in maniera propositiva sui temi delle assegnazioni, della progettazione partecipata e del rapporto col territorio, in prima battuta con i professionisti che vi operano.

Una città non è un vino e neanche una squadra di calcio, ma un organismo mobile, in-divenire, che fagocita i segni che produce e quelli che gli vengono sovrapposti. Lascia "frammenti" dei suoi sistemi di identità chiusi che vengono "assorbiti" dalla città stessa. Un progetto di city branding dovrebbe forse tenere conto di questi aspetti e di queste variabili.

Forse allora una domanda potremmo porcela ed è: si può ancora immaginare un progetto di identità per una città costruito con un approccio modernista e, quindi, come sistema chiuso e calato dall'alto? Può un sistema di identità per la città prescindere oggi dalle regole/logiche del design partecipato, dell'integrazione con i cittadini che devono poter dialogare con il progetto stesso? Ci si può dimenticare che i progetti oggi devono poter essere concepiti come sistemi viventi, recettori attivi delle qualità, delle sensibilità e delle variabilità dei suoi fruitori-utenti-cittadini consapevoli? 

Come referenti dell'associazione riteniamo che questo sia il livello del dibattito da portare avanti. 

La questione è politica ed economica prima che essere estetica e per questo ci sembra che, a prescindere dalle questioni, più o meno condivisibili, legate al gusto, oppure alla mentalità, provinciale ma tutta italiana, di affidarsi alla star, sia necessaria da parte dell’intera categoria una rivalutazione del necessario ruolo politico e strategico che il design della comunicazione può avere per costruire forme dell'abitare, durature, sensibili, condivise e adattive.

Riportiamo per trasparenza di informazione, i link ai testi scritti in queste settimane da Pino Grimaldi, lucidi e attenti come sempre e una "Lettera aperta al Maestro Massimo Vignelli" ricevuta in associazione da parte di un gruppo di designer locali che si firmano "Figli delle Chiancarelle"

Il dibattito, per chi volesse parteciparvi, continua su Aiapzine.

 


(22 Dec 2011 )


 

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18 January 2021

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