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Per l’Abruzzo. Ricominciamo da Ashby

È difficile ripercorrere gli ultimi tre anni abruzzesi senza incorrere nell’aggettivo disastrosi. Si, abbiamo subito dei veri disastri e non solo nel senso del terremoto aquilano che tutti conoscono. 

Non siamo alle prese soltanto con una ricostruzione difficile, siamo alle prese con un vero e proprio infarto collettivo, un infarto culturale, al quale possiamo dare molti nomi e altrettante cause. 

Siamo partiti nel 2008, con il terremoto politico antecedente al fatto sismico, che ha inquisito – a torto o a ragione, lo dobbiamo ancora scoprire – praticamente tutta la classe dirigente, pubblica e privata, della regione. Il 2009, lo sappiamo tutti, è stato l’anno del terremoto vero. Ma anche il 2010 ci ha messo a dura prova: abbiamo assistito impotenti al fallimento della proposta turistica, vampirizzata dalla terribile persistenza di quel totemico brand Abruzzo-terremoto creato dai media globali. 

Se mettiamo tutto ciò dentro al calderone degli anni peggiori del mercato internazionale, che sta mettendo in crisi anche regioni molto più competitive ed efficienti, forse si può iniziare a tracciare il bruciante presente abruzzese.

Non è facile restare in Abruzzo, oggi: gli aquilani vivono ubiqui come gli americani, dislocati nel raggio di un centinaio di chilometri dalla loro città friabile; le aziende collassano e aumenta la disoccupazione; i turisti globali non prendono minimamente in considerazione l’Abruzzo, come se il terremoto qui ci fosse tutti i giorni e non ogni 100 anni; nemmeno attraverso la nostra ottima enogastronomia riusciamo a raccontare la grandezza di queste terre… 

Eppure la gente, sorprendentemente, resta. Pochi sono quelli che se ne sono andati, invece molti – soprattutto giovani che vivevano in altre regioni o nazioni – sono tornati. Sono qui a lavorare, in pieno infarto, per ricostruire, per ricominciare, oppure anche solo per esserci

È un fatto veramente strano, molto interessante, per non dire assolutamente inusuale e imprevedibile. È un fenomeno antropologico senza precedenti, perché non si basa su logiche razionali o interessi privati come nel resto del mondo. Non c’è alcun motivo razionale o economico per restare in Abruzzo. 

Si ritorna e si resta in Abruzzo per sentimento, un sentimento strano, quello della durata

Tutti restano qui perché l’Abruzzo, il loro soggettivo Abruzzo possa durare, perché sarebbe inconcepibile trasformarlo in memoria, quella memoria moderna che tanto somiglia ai musei, immobile e congelata da un costante rigor mortis. Gli abruzzesi rivogliono i loro luoghi piccoli, pressoché sconosciuti, senza fama né risonanza, contraddistinti solo dal fatto che là non succede proprio niente o meglio, ancora niente. Rivogliono i loro luoghi vuoti e marginali, perché prima dei terremoti erano angoli sacri, luoghi-mondo della durata, in cui, in un tempo liturgico, l’io poteva rivendicare la propria centralità e avvertire la sensazione di vivere. Nulla a che vedere, dunque, con il rimpianto dei luoghi incontaminati, non ancora depredati dal consumo, qui si tratta piuttosto di luoghi vissuti come vere e proprie soglie, dove abbracciare il senso inconfondibile della propria esistenza, dove soddisfare la necessità urgente e vera di un’esperienza più autentica e più intensa del mondo, ben cantata dai versi di Peter Handke: “Felice chi abbia i propri luoghi della durata. Egli anche se venisse portato lontano, senza prospettive di ritorno nel suo mondo, non sarà mai un esule”.

Ecco, questo è – forse – tutto ciò che in termini di narrazione oggi possiamo contrapporre all’infarto in atto: un sentimento del tempo liturgico, discontinuo, non indifferente e omogeneo, quello della durata, che qui in Abruzzo ancora c’è: è solido perché fa dell’estetica la sua unica sorgente di analisi, è forte perché è ethos ed ethnos, proprio come nelle polis dell’antica Grecia; attende solo di essere narrato e comunicato nella sua assoluta unicità globale.

Su questa analisi e con questi obiettivi abbiamo iniziato, da comunicatori, a ipotizzare un percorso di narrazioni possibili, che altro non sono che un processo di conoscenza dell’Abruzzo di sempre e di oggi, narrabile perché desiderabile, per tentare almeno di contrastare il lavoro quotidiano del disastroso brand connesso al terremoto che continua a permanere. E abbiamo deciso di cominciare da colui che per primo, agli inizi del secolo scorso, ha voluto percorrere l’Abruzzo per ben otto volte con il chiaro intento di raccontarlo: Thomas Ashby. 

Archeologo inglese di chiara fama e già direttore della British School at Rome, Ashby percorre l’Abruzzo scattando una miriade di fotografie che nulla avevano a che fare con l’archeologia. Sono immagini che nessuno ha mai visto, giunte inedite fino a noi: un vero e proprio tesoro dell’Abruzzo com’era, nelle sue figure mitiche, nei suoi riti, nella sua bellezza antropologica e paesaggistica, nelle sue architetture – alcune oggi crollate – nella sua verità di luogo della durata. 

Da giugno a dicembre, ad Ashby saranno dedicate diverse mostre e manifestazioni, a Roma, presso la British School, poi a l’Aquila, a Sulmona, a Pescara, a Chieti e a Teramo. Non vi promettiamo esposizioni stupefacenti dal punto di vista dell’allestimento, i finanziamenti non sono faraonici, ma ogni immagine è riprodotta fedelmente, usando l’antica tecnica di stampa al carbone. 

Vi possiamo però assicurare che visto così, oggi, Ashby è accecante: ciò che accade nel ripercorrere, attraverso le sue fotografie, i suoi viaggi abruzzesi, è il formarsi di figure mai viste, che raccontano storie mai raccontate, che si aggregano in forme che è come se esistessero lì per la prima volta, ma che in Abruzzo ancora durano. Un evento sempre più raro, che sta perdendo perfino il suo vero nome: quello di ispirazione.

 


( 9 May 2011 )


 

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