Le storie delle arti e delle professioni sono state prevalentemente scritte in chiave maschile. AIAP da almeno 20 anni promuove e cura progetti che indagano da diversi punti di vista i temi relativi al design al femminile (come AWDA, l’AIAP Women in Design Award). Per quanto riguarda l’indagine storica, a partire dal 2019 AIAP CDPG ha curato una serie di mostre accomunate dal termine, provocatorio, PINK.
Inizialmente, questo progetto ha permesso di ricostruire e mettere in mostra le figure e i contributi di progettiste grafiche attive tra gli anni ’40 e i ’70 del Novecento in Italia, in un periodo di grandi cambiamenti per la società italiana, tra boom economico e nuovi costumi. Un periodo in cui l’inserimento lavorativo delle italiane, anche in settori professionali per certi versi “privilegiati”, era condizionato da stereotipi e preconcetti sui ruoli femminili. Nel tempo, PINK si è sviluppato in un progetto più articolato che include progettiste e designer grafiche attive in periodi diversi fino alla contemporaneità.
Il presente percorso tematico introduce a micro-storie del progetto grafico che hanno visto come protagoniste donne graphic designer, prevalentemente escluse dalle grandi storie del design italiano e internazionale, come Brunetta Moretti Mateldi, Anita Klinz, Claudia Morgagni, Simonetta Ferrante, Jeanne Michot Grignani, Umberta Barni, Carla Gorgerino, Ornella Linke Bossi, Alda Sassi (Alsa), Lora Lamm.
Nel mostrare manifesti, libri, bozzetti, disegni, fotografie, non solo si possono vedere artefatti grafici in molti casi straordinari, ma anche vite di donne autonome, coraggiose, talentuose che conciliavano la vita professionale con la vita privata. Definendo dei modelli di riferimento che fino a oggi sono stati raramente tratteggiati e discussi.
Quando nel 1955 si costituisce AIAP (allora Associazione Italiana Artisti Pubblicitari), a seguito della scissione dalla componente dei Tecnici Pubblicitari, tra i 70 “scissionisti” capitanati da Franco Mosca compaiono 4 progettiste (Umberta Barni e Brunetta Moretti Mateldi di Milano, Alda Sassi di Torino, Annaviva Traverso di Savona).
Nell’annuario AIAP editato nel 1963 (caratterizzato da una bella copertina firmata da Franco Grignani) vengono censiti 199 soci, di cui 13 sono donne. Di queste solo 7 inviano per la pubblicazione testimonianza del proprio lavoro: Umberta Barni, Brunetta Moretti Mateldi, Claudia Morgagni, Elena Pinna, Annamaria Sanguinetti, Rosaria Siletti Tonti (originaria di Napoli ma all’epoca attiva a Milano), Verbena Valzelli Guerini (Brescia).
Nell’Associazione dei primi anni era molto presente Brunetta Moretti Mateldi che, oltre a essere tra i 70 “scissionisti”, nel 1956 riceve il Premio Giarrettiera (un riconoscimento semi-serio che aveva il compito di consolidare rapporti tra l’Associazione e interpreti e protagonisti del mondo della comunicazione).
Dal 1964 è socia AIAP Ornella Linke Bossi (nominata socia onoraria nel 2024) che negli anni successivi sarà particolarmente attiva e presente nella vita di AIAP, curando alcune copertine e la redazione di testi per il bollettino Poliedro e, nel 1970, venendo nominata vice presidente per un triennio.
Dell’Associazione è socia (dal 1978) anche Simonetta Ferrante, nominata socia onoraria nel 1985 e tra le prime professioniste ad aprire uno studio autonomo nei primi anni Sessanta.
Una delle ragioni che possono permettere di identificare alcune pioniere è quello dell’autonomia professionale e dei ruoli di direzione . Si tratta di quelle professioniste che negli anni successivi alla Seconda Guerra mondiale hanno avviato attività in proprio o che hanno avuto compiti di direzione (come Anita Klinz), facendosi carico di responsabilità, ricoprendo ruoli differenti, interloquendo con committenti e fornitori.
Per quanto molte di loro operassero e vivessero in una città come Milano, in veloce evoluzione sociale e industriale, in costante contatto con il mondo, di cui costituiva in quegli anni uno dei centri, hanno intrapreso carriere autonome e di rilievo, in un contesto professionale prevalentemente maschile. Un contesto, dal punto di vista sociale, che le condizionava o cercava di indirizzarle verso ruoli stereotipati.
Proprio la molteplicità dei ruoli è un altro fattore. Per una donna all’epoca, ritagliarsi una propria autonoma professionalità costituiva a tutti gli effetti un risultato quasi eroico, se alla professione dovevano affiancarsi ruoli sociali e culturali convenzionali: l’essere moglie, l’essere madre, occuparsi della casa di famiglia, accudire la prole.
La professione del grafico consentiva già all’epoca una gestione flessibile del proprio tempo, ma l’indipendenza poteva risultare relativa se non si riuscivano a raggiungere risultati anche economici di una certa entità. Questa molteplicità di ruoli evidentemente per le donne pesa se non di più in modo diverso che per gli uomini. E come tale andrebbe considerata come un ulteriore elemento di valutazione e valorizzazione.
Altro argomento che si ritiene valido è quello della varietà delle commesse e della inconsistenza del tema, ampiamente adottato in passato, di una specifica riserva professionale. Le progettiste grafiche, proprio come i colleghi maschi, contrariamente a quanto i pregiudizi dell’epoca e alcune fonti indicano, si dedicavano (e si dedicano oggi) a una varietà di ambiti che vanno ben oltre il disegno per una casa di moda, il grande magazzino o comunque per prodotti rivolti al pubblico femminile. Interloquiscono con settori quali l’industria pesante, la chimica e la farmaceutica. Producendo non solo cartelloni o manifesti, ma campagne, identità visive, allestimenti, packaging di prodotti, libri. Contribuendo così allo sviluppo di quella cultura industriale che ha caratterizzato il boom economico italiano e la rinascita del paese.
Questa varietà si esprime anche in termini di linguaggi visivi, non unicamente legati all’illustrazione e al segno espressivo (modalità anche condizionata dalla formazione cui sia prima che immediatamente dopo la guerra avevano accesso), ma anche ad alcune delle più aggiornate tendenze dell’epoca.
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